Contributo del 2013 alla Candidatura UNESCO per l’Opera Lirica Italiana, promossa da Cantori Professionisti d’Italia
Cominciamo col dire che qui non si parlerà (o non si parlerà principalmente) del valore economico della produzione culturale.
Chi vi parla non è un esperto di finanza, come conferma lo stato delle sue.
E poi negli ultimi anni si sono moltiplicati le analisi statistiche e gli studi scientifici sulla redditività, anche economica, della cultura.
Fra i molti, l’ultimo che viene alla memoria è una ricerca dell’Università Bocconi sulla Scala, che dimostra che per ogni euro di denaro pubblico investito nel teatro milanese se ne generano 2,7 di indotto economico sul territorio, in aggiunta al fatturato del teatro.
Si conferma quindi ancora una volta la sostanziale imbecillità di una delle massime non a caso preferite dalla classe politica italiana: “Con la cultura non si mangia”.
E’ vero esattamente il contrario: con la cultura si mangia e in pochi settori come in questo l’investimento pubblico ha delle immediate ricadute in termini di crescita, di sviluppo e di occupazione.
Luogo comune uguale e contrario, l’altra abusata sentenza che “i beni culturali sono il petrolio dell’Italia”.
Verissimo: al mondo, nessun Paese come il nostro ne è altrettanto ricco. Il problema è che bisognerebbe valorizzarli, ma in Italia non è mai stata fatta una politica di investimento nella cultura.
Dispiace, come al solito, fare devastanti paragoni con quello che succede all’estero.
Ma uno studio pubblicato da Eurostat e relativo al 2011 (però da allora è improbabile che la situazione sia migliorata, anzi) dimostra che l’Italia investiva nella cultura l’1,1% del suo prodotto interno lordo, in percentuale meno di ogni altro Paese dell’Unione europea, perfino della Grecia, all’1,2% del Pil.
Siamo lontanissimi dai livelli della Germania (1,8%), del Regno Unito (2,1%) e della Francia (2,5%).
Mi rendo conto che, in un teatro d’opera italiano, ricordare i tagli al Fus è come parlare di corda in casa dell’impiccato.
Ricordo solo che i soli fondi pubblici erogati all’Opéra National de Paris sono equivalenti, milione più milione meno, a quelli per tutte le Fondazioni lirico-sinfoniche italiane.
Manca, in sostanza, l’idea che l’investimento in cultura sia anche un investimento sull’economia, oltre che sul futuro, sulla qualità della vita, sul miglioramento delle persone e in ultima analisi sulla civiltà.
Manca nella classe politica ma purtroppo manca anche nella pubblica opinione e qui forse la colpa è anche nostra, intendo dei media, che continuano a veicolare un’idea della cultura come una specie di sfizio riservato a pochi e pagato dai soldi di tutti.
Invece bisognerebbe ricordare che questo sfizio non è poi così élitario.
Qualche numero?
A Torino, la Juventus ha 11.300 abbonati e il Torino 5.300, totale 16.600. Ma il Teatro Regio ne ha 13 mila e lo Stabile 15 mila, totale 28 mila.
A Milano, la Scala ha 17 mila abbonati, il Piccolo 38 mila, totale 55 mila. Più dell’Inter, che ne ha 40 mila.
Si potrebbe continuare a lungo.
Quello che fa disastrosamente difetto, alle cosiddette classi dirigenti, è l’idea che investire in cultura significhi investire in un nuovo modello di sviluppo, con ottime prospettive ed eccellenti ricadute sul turismo e sull’immagine dell’Italia, quindi anche sui suoi prodotti industriali.
Ogni volta che un teatro italiano va in tournée all’estero, in quel Paese aumentano le vendite del “made in Italy”.
E si potrebbe aggiungere che, per il momento, i cinesi non sono in grado di produrre Raffaello e Verdi, o almeno non a un livello di qualità paragonabile a quelli “veri”.
Però oggi noi siamo qui per celebrare i 250 anni del Teatro Comunale di Bologna, per parlare non di cultura in generale ma in particolare dell’opera lirica, che è poi, azzardiamo, il principale contributo della civiltà italiana a quella mondiale negli ultimi quattro secoli.
Parlando del Comunale al Comunale, ammetto di non essere né imparziale né distaccato come dovrei ma come non potrei. Questo è uno dei “miei” teatri. E un teatro, per chi lo ama, non è solo un luogo fisico.
E’ anche la storia, è la tradizione, è il ricordo, come se le note, le immagini, le emozioni si fossero sedimentate sugli velluti, sugli ori, sui lampadari.
Un teatro è un’architettura della memoria. Che tocca non solo chi il teatro lo fa, ma anche chi a teatro ci va.
Insomma, entri al Comunale di Bologna e pensi a chi è passato su quel palcoscenico.
Pensi a quando il muro che chiude in fondo la scena fu abbattuto per allungarla e celebrare degnamente una visita di Napoleone.
Pensi che nel fondo di uno dei palchi si sedette Verdi per assistere a una replica del Lohengrin, prima volta che si eseguiva in Italia un’opera di Wagner, e scrisse sullo spartito dove aveva seguito la rappresentazione: “E’ matto”, giudizio certo sbrigativo ma non privo di una certa concreta perspicacia.
Ricordo quando, da ragazzino, venivo a intervistare Riccardo Chailly o Christian Thielemann e la chiacchierata si svolgeva nel camerino del direttore, lo stesso dove Toscanini prese il famoso schiaffo.
Fa quindi benissimo il Comunale a festeggiare i suoi primi 250 anni riproponendo lo stesso titolo, Il trionfo di Clelia, che lo inaugurò. E’ un segno che questa storia non inizia con noi e nemmeno, si spera, con noi finirà.
E’ l’idea che di questa tradizione non siamo i proprietari, ma i depositari e che dobbiamo trasmettere ai figli quello che abbiamo ricevuto dai padri, e possibilmente in condizioni migliori o almeno non peggiori.
Ed è anche un rischio, vero, concreto e secondo me già verificatosi, che questa tradizione così importante schiacci la novità, che l’opera lirica diventi la ripetizione di se stessa, nel repertorio ma anche nel mondo di proporlo e perfino nel giudizio estetico, se il bello finisce con l’essere identificato nel rifare sempre le stesse cose allo stesso modo.
Laddove, al contrario, il teatro musicale è certo tradizione ma anche innovazione, è rimettere continuamente in discussione le certezze consolidate, leggere il presente anche nei capolavori del passato.
Del resto, o il teatro, anche quello musicale, è dibattito, oppure è solo il museo delle nostre memorie, quindi non ha futuro.
E invece il futuro c’è.
Non sempre i luoghi comuni sono anche veri. Uno dei più falsi è l’idea, molto diffusa nel nostro Paese, che l’opera lirica sia in crisi.
Sbagliato.
Sarà in crisi in Italia, nel mondo certamente no. Infatti non se ne è mai fatta tanta e in luoghi così diversi.
Il primo spettacolo multimediale inventato dagli uomini, anzi dagli italiani, vince anche la sfida della globalizzazione. Non più tardi di tre giorni fa, Le Figaro ha dedicato una bella inchiesta all’espansione mondiale del teatro musicale.
In Cina, dove si stima che 40 milioni di ragazzini studino il pianoforte e 60 milioni il violino, sono stati costruiti in pochi anni circa cinquanta nuovi teatri d’opera, strutture spesso magnifiche, capolavori di architettura come l’Opera di Canton di Zaha Hadid o quella di Pechino, il celebre “uovo” di Paul Andreu.
Adesso arrivano gli arabi: l’11 novembre scorso è stata inaugurata l’Opera di Manama, nel sultanato del Bahrein.
Ci sono teatri d’opera operativi, scusate il bisticcio, ad Anchorage, in Alaska, e a Città del Capo; ad Auckland, in Nuova Zelanda, e in Uzbekistan, a Edmonton, nel nord del Canada, e a Muscat in Oman.
E’ anche un enorme mercato del quale noi italiani dovremmo essere i conquistatori. In tutto il mondo, l’opera lirica è considerata un prodotto del “made in Italy”, forse il più illustre, in ogni caso quello che da quattro secoli si vende meglio.
Facciamo un esempio pratico.
Ieri, stando ai dati dell’insostituibile sito www.operabase.com, sono state rappresentate nel mondo 98 opere. Di queste, ben 36 erano opere italiane o di compositori italiani.
Nel mondo, ieri si sono sentite Aida a Minsk, Lucia di Lammermoor a Toronto, Siroe a Göttingen, La traviata a Tel Aviv e a Lodz, Rigoletto a Krasnoyarsk e a Odessa, Falstaff a Portland, Le nozze di Figaro a Milwaukee.
Il mondo canta in italiano: un successo più “global” di così! (Confesso che sarei curioso di vedere come fanno l’Aida a Minsk…).
Eppure in Italia l’opera lirica è anche qualcosa di più, il che aggiunge a chi la fa nuove responsabilità.
Perché, vedete, come già nella Grecia classica e nell’Inghilterra elisabettiana, si è verificato in Italia con il teatro musicale un curioso paradosso.
Quello di un’arte nata nelle corti dalla riflessione di un gruppo molto ristretto di intellettuali, dunque élitaria, raffinata, “difficile” (e costosissima) che, misteriosamente, riesce a parlare a tutti, a essere fruibile e infatti fruita da ogni classe sociale.
Lo dimostra la “geografia sociale”, chiamiamola così, delle sale all’italiana, compresa quella del Teatro che ci ospita.
Platea, palchi e gallerie sono la dimostrazione per così fisica dell’interclassismo di quest’arte.
In Italia il melodramma piace a tutti, parla a tutti, a differenza, come aveva capito Gramsci, della letteratura.
L’opera è il grande romanzo o il grande teatro “parlato” che non abbiamo mai avuto: prodotto culturale e spettacolare ma anche centro della vita sociale (come testimonia la relazione di ogni “Gran tour” italiano, dal presidente de Brosses a Stendhal in giù) e focalizzatore delle passioni.
L’opera è l’anima dell’Italia. E, in epoche di mobilità sociale molto difficile, diventa anche un formidabile strumento di ascesa, di riscatto, di affermazione.
Il figlio del “trombetta” di Pesaro, il banditore pubblico che annunciava nelle piazze le grida governative, diventa Gioachino Rossini; quello dell’oste delle Roncole, frazione di Busseto, diventa Giuseppe Verdi.
E sono nomi che pronunciamo ancora con emozione e con rispetto, in ogni caso con gratitudine. Non solo: sono proprio questi uomini ad aver raccontato meglio l’Italia.
Quest’anno festeggiamo (male, ma non è questo il punto) i duecento anni dalla nascita di Verdi.
Grande musicista, grandissimo drammaturgo, protagonista del Risorgimento, anche se in modi e forme alquanto diversi da quelli che sono sempre stati raccontati, padre della Patria, tutto quel che volete.
Ma anche uno dei pochi, pochissimi nostri intellettuali ad aver raccontato gli italiani a loro stessi non per come credono di essere o come dovrebbero essere, ma per come sono.
Insieme a Machiavelli, al Leopardi (quello che non fanno leggere a scuola), a Gramsci, a Fellini e a pochi altri, Verdi è uno dei pochi ad averci descritto con una profondità e direi una spietatezza assolute.
Anche se per obbedire alle convenzioni della sua epoca doveva travestire gli italiani di sempre da antichi egizi o da scozzesi del Medioevo o da cortigiani del Rinascimento.
E allora, se la cultura è un valore, in Italia l’opera lirica è un valore aggiunto, è una parte di noi, è insieme la spiegazione e la causa del perché siamo italiani e perché siamo questi italiani.
Ed è anche la ragione per cui è bello e giusto essere qui, in un Teatro glorioso che celebra i suoi primi 250 anni, a festeggiarlo e ad augurargliene altri 250.
Almeno.
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