Giovanni Puglisi: L’Opera Lirica Italiana Patrimonio dell’Umanità. Tra opportunità e responsabilità.

Contributo del 2012 alla Candidatura UNESCO per l’Opera Lirica Italiana, promossa da Cantori Professionisti d’Italia

«Se mi si chiedesse quale, tra tutte le lingue, deve avere la grammatica migliore, risponderei che è quella del popolo che ragiona meglio.

Ma la lingua italiana che è dolce, sonora, e armoniosa e accettata più di qualsiasi altra è quella più adatta al canto.»

Così scriveva nel 1753 Jean-Jacques Rousseau nella sua Lettre sur la musique française, con la quale si schierava apertamente “du coté de la reine”, ovvero dal lato della regina, nella querelle tra musica – al tempo quasi sinonimo di opera – francese e italiana che infammò Parigi in seguito alla straordinaria diffusione in tutta Europa del melodramma italiano a partire dal XVII secolo.

Come si vede, una parte centrale dell’argomentazione di Rousseau a sostegno della superiorità dell’opera italiana è costituita dalla lingua, una lingua descritta con i tre aggettivi di “dolce”, “sonora” e “armoniosa”, di fatto applicabili a tutta la poesia italiana.

In particolare, a quel rarefatto linguaggio – petrarchesco prima e petrarchista poi – che si era diffuso nei secoli precedenti modellando la poesia di tutta Europa, cui il filosofo francese aggiunge però un quarto attributo, per noi sorprendente: la lingua italiana sarebbe, infatti, “accettata più di qualsiasi altra”.

Con quest’ultima affermazione, che vede l’italiano innalzato al rango di lingua veicolare egemonica nel campo della musica, proprio in quella Francia la cui lingua dominava nel Settecento l’Europa illuminista, Rousseau sottolinea il ruolo eccezionale che l’Opera ha rivestito nella diffusione e nel prestigio della cultura e della lingua italiane nel mondo, di cui le opere italiane di Mozart, nate dalla collaborazione del musicista tedesco con il librettista italiano Lorenzo da Ponte, costituiscono solo uno di numerosi e straordinari esempi.

Nonostante insomma l’Opera sia – nelle parole di Massimo Mila – “il meno esportabile genere di musica, legata com’è ai rapporti tra suono e la lingua parlata”, essa è riuscita fin dalle sue origini a superare le frontiere, favorendo nel mondo la conoscenza e l’amore per la lingua italiana e, al tempo stesso, cementando in patria la costruzione della nostra identità nazionale.

Sappiamo bene, d’altra parte, come nella nostra Penisola la lunga ricerca di una lingua nazionale abbia coinciso per oltre sei secoli – da Dante a Manzoni – con la ricerca dell’unità territoriale e politica.

Non stupirà, dunque, come terzo movimento di un perfetto sillogismo, il fatto che il momento conclusivo di questa ricerca veda coincidere negli stessi anni, quelli centrali dell’Ottocento, l’unificazione dell’Italia, la codificazione della lingua nazionale e il momento di maggiore splendore dell’Opera italiana.

Ecco il racconto che fece di quel momento, con gli accenti patetici che un altro dopoguerra, quello successivo alla Liberazione, imponeva, il musicologo Massimo Mila:

“Il risveglio politico dell’Italia a ideali di libertà trasformò, intorno al 1830-40, gli orientamenti del melodramma. Patrioti morivano impiccati sugli spalti delle fortezze austriache; altri languivano nelle carceri; altri prendevano la via dell’esilio. La stagione del melodramma amoroso volgeva al termine. L’allegria conservatrice di Rossini, dové forse parer cinica alla generazione di Goffredo Mameli, agli studenti che andranno a morire con inesperto coraggio sui campi di Curtatone e Montanara. Dalla propria musica (cioè dal melodramma) l’Italia aspettava confusamente qualche cosa di nuovo, un accento più virile ed eroico che rispondesse all’entusiasmo patriottico della gioventù liberale”.

Invoca questo “qualcosa di nuovo” Giuseppe Mazzini nella sua Filosofa Bella musica del 1836, s’incarnano “questi nuovi accenti” nell’opera di Giuseppe Verdi, attraverso cui – scrive ancora Mila – “ la musica italiana, aulica e aristocratica per lunga tradizione, scoprirà il popolo”, si cristallizza, infne, la nuova indissolubile unione tra Opera e identità nazionale italiana nel grido “Viva V.E.R.D.I.!” con cui i nostri risorgimentali inneggiavano a Vittorio Emanuele re d’Italia.

Ho voluto, in questa breve introduzione, sottolineare da una parte il primato dell’opera italiana nel mondo e dall’altra il suo ruolo nella costruzione dell’identità della nazione, perché credo che essi costituiscano gli elementi culturali centrali in qualsiasi discussione sullo status dell’opera in musica come patrimonio culturale italiano.

Su questi stessi elementi, d’altra parte, si è basata l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione la Scienza e la Cultura quando – su istanza della Commissione Nazionale Italiana – ha voluto associare il proprio nome e la propria attività a due importanti anniversari dell’Opera italiana: il quattrocentesimo anniversario della prima rappresentazione dell’Orfeo di Claudio Monteverdi nel 2007 e il duecentesimo anniversario della nascita di Giuseppe Verdi, le cui celebrazioni sono programmate per il 2013.

Ma non voglio fingere un’ingenuità che non mi appartiene.

So bene, infatti, di essere stato invitato qui oggi non per fornire un contributo, peraltro da profano, sul valore o sulla storia dell’Opera italiana, ma perché ci si aspetta da me, in qualità di primo rappresentante dell’UNESCO in Italia, una parola di incoraggiamento o di cautela, di dubbio o di adesione, sull’opportunità di candidare l’Opera italiana nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, istituita dall’UNESCO in seno alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (Parigi, 17 ottobre 2003).

Stando alla definizione di patrimonio culturale immateriale fornita dalla stessa UNESCO non parrebbero esservi dubbi sulla legittimità di una simile candidatura.

Leggiamo, infatti, nell’art. 2 della Convenzione che per patrimonio culturale immateriale “si intendono pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e i saperi – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale.

Tale patrimonio culturale intangibile, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro un senso di identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”.

Poco più oltre nello stesso articolo, poi, tra gli ambiti in cui tale patrimonio si esprime, ritroviamo non solo “le arti dello spettacolo”, in cui l’Opera rientrerebbe ovviamente di diritto, ma anche “i saperi e i saper fare legati all’artigianato tradizionale”, cui non si può evitare di fare riferimento pensando alle straordinarie professionalità artigiane che entrano in gioco – dalle scenografe ai costumi – nella produzione di un’opera in musica.

Ancor più confortante appare il panorama, almeno a prima vista, se proviamo ad estendere lo sguardo agli elementi già proclamati dall’UNESCO “patrimonio culturale immateriale dell’umanità”.

Scorrendo le prestigiose liste saltano subito all’occhio elementi in qualche modo analoghi all’Opera italiana, tra i quali spicca la recente proclamazione, nel novembre 2010, dell’Opera di Pechino.

Eppure, proprio un’analisi un po’ più approfondita della candidatura cinese ci svela una delle criticità che emergerebbero nel caso della candidatura dell’Opera italiana, ovvero la difficoltà di una individuazione chiara della cosiddetta “comunità patrimoniale”, la comunità depositaria dell’elemento culturale candidato e responsabile della sua salvaguardia che, secondo i criteri stabiliti dall’UNESCO, non può coincidere con l’intera nazione.

Non a caso, i cinesi hanno dovuto denotare come “di Pechino” la propria opera nazionale, esattamente come l’Italia ha dovuto individuare in modo per lo più pretestuoso – non se ne abbiano a male gli amici del Cilento – un’unica e circoscritta comunità depositaria dell’elemento culturale della Dieta Mediterranea per ottenere la proclamazione, nonostante sappiamo bene come lo stile di vita legato al mangiare mediterraneo sia patrimonio di tutta – o quasi tutta – la Penisola.

In altri termini, proprio uno degli aspetti che maggiormente concorrono a fare dell’opera lirica uno strumento di unificazione culturale dell’Italia tutta, ovvero il suo estendersi senza soluzioni di continuità dalla Bergamo di Donizetti alla Catania di Bellini, rischia di rappresentare un serio elemento di criticità nel corso di una candidatura all’UNESCO.

Non si tratta, credetemi, di un mero cavillo, di una sottigliezza da burocrati. Collegati a una incerta definizione della comunità patrimoniale albergano il sospetto di un carattere “elitario” anziché popolare e tradizionale dell’elemento candidato, il dubbio sulla sua reale vitalità, sul coinvolgimento delle comunità nella sua salvaguardia, in particolare attraverso una sua trasmissione formale e informale di generazione in generazione.

Tutti requisiti fondamentali richiesti dalla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, la quale – proprio nell’opposizione tra rappresentatività ed eccezionalità del patrimonio culturale – si distingue dalla più nota Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale del 1972.

Sui problemi connessi ai criteri sopra elencati, vitalità – coinvolgimento – salvaguardia – trasmissione formale e informale, non possiamo nasconderci dietro un dito: l’Italia ha il minor numero di orchestre e cori, per numero di abitanti, tra tutti gli stati europei; gli stipendi dei musicisti italiani sono del trenta per cento inferiori alla media europea, determinando il progressivo allontanamento dei giovani dalla carriera per la quale si sono lungamente e faticosamente formati.

I teatri in generale e i teatri d’opera in particolare sono spesso luoghi estranei ai territori in cui sono insediati; i cittadini italiani, e in particolare i giovani, percepiscono l’Opera sempre più come uno spettacolo elitario, per pochi, sia per il costo – spesso proibitivo – delle rappresentazioni, sia per una ineducazione al linguaggio poetico, drammatico e musicale dell’opera in musica che affonda le sue radici già nei primi anni della scuola dell’obbligo.

Sia ben chiaro: le criticità che ho segnalato, se anche importanti, possono probabilmente essere superate attraverso la stesura di un dossier di candidatura magistralmente costruito per soddisfare anche i più schizzinosi palati unescani, unito a una intensa azione di diplomazia internazionale, come già accaduto in fondo per la Dieta Mediterranea.

Non solo: il riconoscimento UNESCO può costituire senz’altro l’opportunità per un rilancio, quanto meno mediatico, e per una maggiore sensibilizzazione dei cittadini e dello Stato sulla necessità di salvaguardare il patrimonio culturale costituito dall’Opera lirica in Italia.

In altre parole, esso può costituire un’opportunità di rilancio per la comunità dei professionisti del settore lirico e sinfonico e, di conseguenza, per l’intero sistema di produzione artistico e culturale italiano.

Ma senza una reale risposta alle criticità sopra elencate, il riconoscimento UNESCO non sarebbe altro che questo: un trampolino mediatico spalancato su una piscina vuota, un’opportunità sprecata, una potenzialità di salvaguardia, promozione e valorizzazione dell’Opera italiana che non si trasformerà mai in atto.

Checché se ne dica infatti – ed è stato drammaticamente dimostrato dalle vicende di Pompei – il riconoscimento UNESCO non è una panacea in grado di sostituirsi all’impegno delle istituzioni preposte né tanto meno al lavoro in prima linea delle Fondazioni lirico sinfoniche.

Da questo punto di vista la responsabilità delle istituzioni centrali e locali è enorme: ho ricevuto con grande soddisfazione la lettera con la quale il Presidente della Commissione Cultura della Conferenza delle Regioni italiane ha voluto esprimere il sostegno delle Regioni alla candidatura dell’opera, ma accoglierei con ancora maggiore entusiasmo, uno stanziamento di fondi per l’opera e per la cosiddetta “musica colta” superiore all’attuale 0,1% del prodotto interno lordo, un dato che pone l’Italia all’ultimo posto in Europa, dopo Grecia e Romania.

Altrettanto grandi, però, sono – soprattutto in questo momento di crisi – le responsabilità delle Fondazioni lirico-sinfoniche, che sono chiamate trovare nuove forme di sostentamento.

Un esempio potrebbe essere l’accesso ai fondi europei, che in Italia quasi nessun teatro è ancora in grado di utilizzare, oltre che attuare politiche di rigore e controllo dei conti in tutti i comparti.

Infine, è necessario che i professionisti del settore musicale, lirico e sinfonico, italiano si impegnino – come scrive in un recente articolo il noto tenore cagliaritano Gianluca Floris – a lottare per cambiare i criteri di gestione dei nostri Teatri d’Opera.

“È ormai improcrastinabile” – scrive – “la realizzazione di un nuovo sistema produttivo. Bisogna aumentare il numero di alzate di sipario, bisogna aumentare il numero di spettatori, bisogna rinsaldare il contatto dei nostri teatri con il territorio nel quale operano”, innanzitutto – aggiungo io – attraverso un rapporto costante e stretto con la scuola.

Senza l’impegno anche economico delle istituzioni preposte diviene impossibile dimostrare all’UNESCO la centralità e l’importanza della lirica all’interno del patrimonio culturale italiano.

E senza lo sforzo delle Fondazioni liriche diviene impossibile costruire e consolidare una nuova – allargata e popolare – comunità della lirica italiana.

Senza entrambe queste condizioni, mirare al riconoscimento UNESCO rischia di divenire velleitario e ininfluente.

E allora, per salvare l’opera italiana, non limitiamoci alla candidatura unescana, ma usiamo tutti i mezzi a nostra disposizione.

Non limitiamoci a costruire un dossier ineccepibile, ma costruiamo una comunità patrimoniale solida e creativa.

Non limitiamoci a fantasticare sulle opportunità derivanti dal riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”, ma fermiamoci a riflettere, tutti insieme, sulle responsabilità che esso comporta.

Prof. Giovanni Puglisi Presidente Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO

Bologna 20 febbraio 2012

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